Milano, la città confezionata da illusioni

di Romeo Cartaginese

Milano – È il rumore dei tram sulle rotaie a emergere fra il brusio delle formiche frettolose agli incroci affollati. È lo stridio che sovrasta le voci a scandire il tempo fra il rumore dei passi sulle strade secolari, nella pianura della moda. Milano City è la metropoli italiana nel Mondo, la sciura ricoperta dalla storia tracciata sui lineamenti dei suoi palazzi, con indosso la veste magica del cambiamento crescente e il pesante grigio delle sue curve di cemento che si sfuma all’orizzonte.

Milano è un prezioso regalo infiocchettato con nastri di illusione. La bella Madonnina osserva la “merda d’artista” che esce dalla boutique in scintillanti sacchetti maneggiati da commesse-robot dal sorriso in porcellana. La Signora Meneghina è la seconda classificata a Miss Italia che scalpita per rubare il titolo all’antica Roma, mentre sui vetri dei suoi grattacieli in espansione si riflette la ricchezza che cresce su arabi e orientali. Privata del made in Italy, continua a vantarsi delle sue produzioni originali fra l’insegna di un fast-food americano e una catena spagnola di negozi. Milano è certezza attraverso l’illusione, in cui l’esaltazione di cose e persone fa acquisire prestigio su paroloni come: impresa, slogan, televisione, lusso, marketing e marchette. È ossimoro e metafora, è l’America per la gente del Sud e la Las Vegas per le arrampicatrici sociali in cerca di un business-man con la carta nera e pesante, ma, soprattutto, è la Hollywood italiana per le aspiranti vallette in cerca di notorietà.

Milano è l’isola dei famosi e dei non-famosi, è un rifugio pubblico e bizzarro per i cervelli nomadi, attracco dei girovaghi in cerca di appigli, meta di rinascita per i giovanissimi venuti su a pane e processioni. Vivere a Milano suona come una glitterata sirena di emancipazione che attrae i famelici della movida notturna e l’estrema caparbietà di ogni presunta attrice gieffina senza talento. Le rondini svezzate in stretti borghi di poche anime si lanciano nella città metropolitana per inzupparsi in stimoli culturali e sgomitare per avere le spinte giuste che aprono le porte. Come formiche operaie, i figli delle Università lontane lottano per emergere e salire ai piani alti, perché la gavetta si fa per conoscenza tra i pit-stop ai locali in centro e agli eventi, dove è “la legge della più scaltra e bionda” a scatenare curiosità e, dunque, credibilità a prescindere dalla propria dialettica.

Il bagno di stupore in Gae Aulenti accresce la scoperta della vastità dei tesori in movimento fra teatro e spazi espositivi, come contrappeso alle camere anguste su viale Monza in cui ritornare a elemosinare riposo alla notte. Il nido, paradossalmente, si trova in ogni porzione di giungla che s’incontra all’uscita dal lungo Caronte sotterraneo – bene di prima necessità per ogni cittadino medio. La città è la casa in cui entrare con le scarpe del mondo e le voci delle diverse terre emerse, dove le strade sono i corridoi e i parchi curati diventano le piante tra una stanza e l’altra.

Milano è bella, pungente, dispensatrice di opportunità e ambigua, in cui smetti di essere italiano per ritrovarti a Bogotà e, girato l’angolo, essere travolto da un flusso di fashion bloggers e modelle contente “pe fa sta sfilata”. Milano è una maratona che non ha un punto di arrivo e si corre sull’anello invisibile delle sue mura perché il punto di arrivo lo crea il pellegrino che vi giunge, quando smette di essere ambizioso fermandosi al primo fiatone, oppure quando gli sfugge l’occasione di un’esterna con un sultano in incognito che visita il Salone del Mobile.

La metropoli muta pelle ai primi freddi settembrini che fanno defluire l’invasione turistica dell’estate, segnata dallo shopping incessante e dall’afa carica di incertezza che destruttura la quotidianità, forzando il divertimento e spingendo il giorno dentro la notte, quando ai Navigli il sonno è morto e gli aperitivi diventano ninne-nanne scolpite sui bicchieri. L’estate aliena lascia il posto all’autunno alle porte che accoglie e raccoglie gli alienati, gli emigrati dal Sud, i sognatori e gli artisti, in un limbo in cui la fatica e l’avventura sono segnate dal freddo pungente che sveglia gli occhi ancora assopiti dalla nostalgia della sabbia di Agosto.

Il tempo si trasforma in materiale prezioso e sfuggente da acchiappare con l’organizzazione meticolosa e la scissione della vita privata dalla vita nella giungla metropolitana, mentre il Duomo, maestoso e protetto da uomini armati, osserva in silenzio gli incontri degli amori a ore nella sua piazza e i passi degli uomini ricchi e dei senzatetto che si diramano fra i vicoli storici. Ogni nuovo giorno nasce per essere un tassello in più alla modernità, in cui l’old diventa vintage e il cheap imbellettato diviene chic e new, in una pianura che mira a crescere come una montagna su sedimenti di monete. L’unica certezza immortale della città resta la presenza dei piccioni che ricercano un alito di tepore sulle grate del metrò: monito inconsapevole per i cittadini soffocati dai fogli delle agende, incanalati in mura sotterranee nella speranza di essere riqualificati dalla fiera ingorda “Milan l’è Milan”.

Foto Milano “Corso Vittorio Emanuele” www.pinofaraone.it

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